
L’omofobia è un’invenzione onomastica
Questa è innanzitutto una guerra delle parole, che vengono coniate o ri-connotate a servizio della campagna di conquista. L’omofobia è un’invenzione onomastica che ha creato un fenomeno virtuale. Un esempio mirabile di neolingua orwelliana. Si tratta della terza fase della finestra di Overton, il processo di ingegneria sociale applicata con cui si rende l’assurdo normalità. Il regista russo Mikhalkov la spiegava così: al primo livello, chi mangia gli essere umani è chiamato “cannibale”. Al livello successivo si parla di “antropofagia” e, con la parola di matrice classica e di sapore scientifico, il fenomeno, per quanto negativo, viene considerato degno di attenzione accademica e in qualche modo nobilitato. Al passaggio ulteriore gli antropofagi divengono “antropofili”, si addolcisce il senso di negatività del comportamento anomalo. Nell’ultima fase, si afferma la bontà del fenomeno inizialmente percepito come deplorevole e si realizza il capovolgimento finale: sorge la categoria degli “antropofobi”, coloro che pervicacemente ancora vi si oppongono, nonostante la sua avvenuta normalizzazione. Somministrato con gradualità e maniere dolci, il paradosso è accettato senza crisi di rigetto. Ecco, sostituendo “cannibale” con “invertito”, si capisce come siamo finiti a parlare di “omosessuali” e “omofobi”. L’omofobia, dunque, è un’arma strategica decisiva per il raggiungimento, da parte dei movimenti omosessualisti, di una folle supremazia culturale e politica, secondo il disegno di una potente regia: attraverso le formule, si crea il soggetto socialmente pericoloso, colui che si pone al di fuori della nuova morale codificata mediaticamente e pilotata politicamente. Secondo i dettami di ogni totalitarismo, per legittimare la repressione è necessario precostituirsi una minaccia interna al sistema, il nemico oggettivo, appunto l’omofobo, cioè tu, io e tutti coloro che la pensano come noi e osano dirlo o anche solo pensarlo (è stigmatizzato anche l’atteggiamento interiore, andiamo verso lo psicoreato). Ecco perché con quella premessa “precauzionale” – con cui ci si illude di apparire sufficientemente ragionevoli, tolleranti e responsabili agli occhi della massa addomesticata – si entra nel territorio del nemico e, assumendo le sue categorie, lo si legittima. Una mossa suicida.